venerdì 18 gennaio 2013


Contro l'elogio della macellazione tradizionale

La “liturgia” officiata dal sacerdote-fattore, il sangue che bagna la terra, il cerimoniale clandestino, la “sopravvivenza della nostra cultura rurale, di saperi, di credenze e di saperi”, la “resistenza” e “disobbedienza” dell’allevatore alla politica agricola comunitaria, il cui fine ultimo, in fondo, è “l’espunzione dal mercato e dalle terre” dell’agricoltore. Il peana intonato alla macellazione tradizionale del maiale e ai suoi chierici, in un “rito di vita e di morte” che “appartiene alla nostra identità culturale”, “rinsalda le relazioni tra vicini” e la cui “clandestinità rappresenta il paradigma della politica di omologazione di annientamento delle culture locali che violentemente si tenta di estirpare”(Antonio Medici, Il rito clandestino del maiale, B Magazine, 15 gennaio), è vecchio must da apologetica del casereccio.

Come ogni panegirico che si rispetti, si dice il vero, ma pure si perde qualcosa per strada. Gour_man ricorda un po’ gli aficionados della tauromachia. Uno di loro, eminente filosofo e docente di etica, ha scritto che, sì, la corrida è uno spettacolo crudele, ma anche “una rappresentazione del tragico in tutta la sua crudezza con un fondo di rassegnazione trionfante: come la vita stessa […] essa rappresenta un’autentica eccezione culturale, l’anello improbabile e fragile che congiunge un crudo rituale antico con la stilizzazione normativa che la modernità impone agli spettacoli pubblici. Quella che un tempo, nella plaza de toros, è stata una battaglia per la sopravvivenza e in seguito una favolosa battuta di caccia sopravvive oggi trasfigurata in un balletto drammatico, insieme raffinato e brutale, tutelato da un regolamento del quale il pubblico esige una meticolosa applicazione da parte dell’autorità competente. L’ho detto: un caso eccezionale, una cosa mai vista (Fernando Savater, Orazione taurina).

Certo, le liturgie, e in questo le liturgie irrorate di sangue, rinsaldano il senso di comunità, promuovono la convivialità, sono dentro l’identità culturale di una nazione. Ma tutto qui? E’ sufficiente per giustificare? Ogni anno, il 28 gennaio, nel villaggio vietnamita di Nem Thuong ha luogo una cerimonia tradizionale durante la quale un maiale viene brutalmente tagliato in due mentre è del tutto cosciente. Decine di persone accorrono per partecipare alla cerimonia in onore del guardiano Doan Thuong, la loro divinità. Durante il rituale, il suino è trasportato in processione attorno al villaggio, per essere poi collocato a terra a pancia in su. Gli assistenti gli legano gli arti e scoprono il ventre, finché un uomo colpisce l'animale e lo taglia a metà con una grossa lama. A questo punto la folla si precipita attorno alla pozza di sangue, immergendovi le proprie banconote, nella credenza che questo sarà di buon auspicio per l'anno nuovo (Fonte: oipa.org). Qui la folla si fa congrega attraverso lo “stupro”, consacrato alla Tradizione, della bestia. Se è il dato che rileva, allora si legittimi l’abominio.

A Carloforte, in Sardegna, nei mesi di maggio e giugno si svolge la mattanza di tonni rossi. Un rito, una manifestazione tradizionale del tipo dello scannamento del suino accompagnato e amministrato da un celebrante, il Raìs, il direttore. Attraverso un sistema di reti fisse i tonni sono costretti, durante la migrazione in atto per riprodursi, ad entrare in una serie di camere dove transiteranno fino ad arrivare all’ultima, la “camera della morte”, nella quale verranno ammassati per poi essere massacrati. I tonni si dimenano terrorizzati ferendosi l’uno contro l’altro durante la cattura, vengono arpionati in maniera cruenta e trascinati sulle barche circostanti, dove con un coltello viene forato loro il cuore per permettere che le carni rimangano morbide mentre muoiono soffocati, lentamente ( Fonte:Animalequality.it). Dobbiamo santificare l’ammazzatoio più turpe sull’altare della socializzazione e della moltitudine famelica, magari adducendo a pretesto la sterilità dei macelli industriali?

Medici, alla discussione certo pedante sulla liceità dello scannamento suino, probabilmente risponderebbe alla maniera del citato Savater: “Il vero problema sono i milioni e milioni di bestie che alleviamo per farne delle bistecche”. Che è vero ma che nulla toglie all’immoralità dell’atto in sé. La ciccia sta altrove. Alcuni mesi fa, su queste pagine (http://www.sanniopress.it/?p=20984), si scriveva, e lo si può ribadire, che “la storiella giustificazionista della consuetudine è una brutta storia. Sta là, belluina, presto pronta per tutti i porci comodi. […] Il popolo, sì bestiale, si rimpinza di lordura. Si fottano gli “interessi” animali. La Tradizione è la foglia di fico, nulla di più”. Forse è il caso, anno di grazia 2013, di fare qualche passo avanti.

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